Antropologo a domicilio n°94 (19.2.2024)


La solitudine è considerata oggi alla stregua di una malattia. Anzi, una delle più diffuse malattie sociali della nostra epoca. Farmaci, terapie, assistenza: una malattia.
Epidemia, ne ha definito la diffusione Vivek Murthy, che negli Stati Uniti corrisponde al nostro ministro della sanità. Secondo lo psicanalista Vittorio Lingiardi, con conseguenze sanitarie drammatiche: “insonnia, alterazioni immunitarie, patologie cardiache, alimentari, algiche e ovviamente ansia, depressione, dipendenze da alcol e sostanze. Tanto che alcuni esperti stimano che il rischio di morte prematura può aumentare del 30%”.
In Gran Bretagna nel 2018 è nato il ministero della solitudine. In Giappone è nato tre anni dopo, con un nome quasi esotico”: “ministero per la promozione del coinvolgimento dinamico di tutti i cittadini".
In Italia? Indubbiamente la nostra è una società diversa, i legami familiari sono tradizionalmente più forti. Ma non nascondiamoci dietro a un dito. Anche il Italia la solitudine cresce, è cresciuta.
C’è una solitudine oggettiva, di chi vive solo, isolato, con scarsi incontri sociali. E c’è una solitudine soggettiva, di chi si sente solo anche in mezzo agli altri.
La distinzione tra le due forme di solitudine è essenziale.
E sulla seconda, la solitudine soggettiva, ho qualcosa da dire.
Ha numerosi padri, la solitudine come esperienza soggettiva, qui mi concentrerò su uno, l’individualismo esasperato, che sfiora il narcisismo. Per chi ne è affetto, non è che gli altri non vi siano o siano lontani – come nella solitudine oggettiva – ma sono irrilevanti.
Un individualista esasperato non ha né interesse né curiosità per gli altri, ma si aspetta che gli altri abbiano interesse e curiosità per lui, che lo mettano al centro, come lui stesso si sente e rivendica al mondo intero.
Un individualista esasperato vede gli altri solo come sfondo di applausi. Non ha curiosità che per se stesso, per la sua gratificazione, per il riconoscimento che deve essergli attribuito.
In sostanza, per semplificare, ha perso la capacità di “ascoltare” gli altri.
E in questo è aiutato dai social. Essi sono costruiti in modo da spingere  ciascuno a “parlare”, cioè a esprimersi, alla caccia del like. Certo i social sono anche una vetrina degli altri, dei loro video e post, ma il meccanismo funziona se tutti “parlano”. E gli altri più che fonte di curiosità finiscono per essere occasione per poter “parlare” a qualcuno.

Il “virus” dei social si trasmette poi negli incontri sociali. Proviamo a fare caso, nella prossima occasione in cui ci troviamo in un evento sociale, a quanti parlano e quanti ascoltano. Forse scopriremo che molti parlano, pochi ascoltano. Sembra che si aspetti solo il momento in cui si può “parlare”. Oppure, peggio, interrompere.
In realtà ascoltare non equivale ad aspettare il proprio turno di parola. Per ascoltare bisogna avere curiosità per l’altro. Che è oggi una dote sempre più rara.
Ascoltare non è semplicemente tacere. Ascoltare è come leggere un romanzo, cioè equivale ad addentrarsi nella vita di un’altra persona, di altre persone. È attendere che l’altro sveli qualcosa di sé, della sua vita, delle sue storie e passioni, sogni e dolori. Ascoltare è mettersi da parte, non occupare il centro della scena, ma la periferia. Al centro c’è l’altro che parla.
L’ascolto non è una dote naturale, è un sapere che si acquisisce con pazienza lungo il corso della propria vita. Cominciando da subito, nell’infanzia. L’udire è naturale, non l’ascoltare. Le società tradizionali insegnavano ad ascoltare, cioè a rispettare il sapere degli altri, la loro competenza, la loro capacità di parlare e sedurre con la parola. Si imparava ad ascoltare e insieme si imparava a parlare al tempo giusto. Cioè ad aspettare che gli altri ascoltino, non a parlarsi addosso. Altro che “curva dell’attenzione”, che oggi è al centro delle politiche e delle pratiche pedagogiche, come se esistessero limiti naturali all’ascolto e non invece culturali. Cioè di induzione e di abitudine all’ascolto.
Quando si impara ad ascoltare – come quando si impara a leggere – si scopre che l’ascolto dell’altro semina qualcosa dentro di sé, poiché fa più ricco il proprio mondo, lo accresce del “tesoro” dell’altro. Ascoltare – come leggere un romanzo – amplia la propria esistenza, ci fa vivere altre possibilità, oltre ciò che siamo, verso ciò che avremmo potuto o potremmo essere. E ci consente di decentrare il nostro sé, guardarlo come una tra le tante possibilità di esistenza, non l’unica possibile o l’unica che conta. Ascoltare dà saggezza, capacità di guardarsi da altri punti di vista.
Non è roba da social, purtroppo. Perché nei social c’è la rappresentazione di una maschera molto limitata di sé: quella dei like.

È proprio questa scomparsa della capacità di ascolto che accresce la solitudine come esperienza soggettiva. Perché, almeno per alcuni, essa viene dal desiderio di essere il centro del mondo, che gli altri non rispettano. Forse perché anche loro vogliono essere il centro: una società di Narcisi. All’opposto, l’ascolto implica una relazione, quindi apre alla socialità, alla compagnia.
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