Di sola accademia l’antropologia muore. Ovviamente è fondamentale che l’antropologia venga studiata nelle università, però non può limitarsi ad esse, deve andare nei luoghi in cui ci si incontra e si può riflettere, discutere, confrontare le proprie idee sul mondo umano con quelle che questo sapere fornisce sulla base di studi e ricerche. Ecco perché l’antropologo deve andare “a domicilio” degli esseri umani, e non limitarsi ad attendere che vengano all’università o leggano i suoi libri.
Una piazza in festa
C'è una piazza in festa, ci sono artisti di strada. C'è un bambino, fermo in mezzo a un fiume di persone che gli scorre intorno. In mano ha un gelato, che non lecca. Guarda incantato il flusso di umanità che lo lambisce. Ragazzi allegri e vocianti con le mani sulle spalle fanno un treno, un uomo basso e rotondo cammina ridendo accanto a uno alto e smilzo, bambini al seguito di genitori cadenzano richieste di gelati, panini e dolciumi, una coppia si bacia come fosse invisibile. Lui è là, fermo, guarda.
Un clown di passaggio gli fa una smorfia di comicità, lui sgrana gli occhi, poi l’increspa e li abbassa, turbato.
È alto un soldo di cacio questo bambino, avrà cinque anni, i genitori gli sono a un passo, chiacchierano allegramente con amici, lui è là, isolato, in mezzo alla piazza, incantato a vedere gli artisti, le persone in festa. Poi il gelato si liquefa e comincia a scorrergli sulla mano, scivola giù, vinto dalla forza del caldo della notte di luglio, ma lui sembra non accorgersene.
Catturato dalla festa che gli scivola intorno, è rapito da un sentimento di meraviglia tanto forte per lui da fargli dimenticare il gelato.
Io guardavo lui che guardava la festa, guardavo l’incanto di un bambino incantato, e pensavo a quanto forte sia per noi umani la curiosità per gli altri, la spinta a sapere di loro. Subito, dalla nascita, forse soprattutto allora.
E poi pensavo che un po’ come quel bambino è l’antropologo, la cui vita è alimentata dalla spinta alla conoscenza dell’”altro”, degli altri. Della “diversità culturale”. Ma anche alla conoscenza di sé, del proprio mondo culturale, per cogliere le somiglianze/differenze con l’altro-da-sé, e ritrovare infine l'umanità comune. Al principio di tutto per gli umani è il “thaumàzein”, diceva Aristotele, cioè la “meraviglia”, fascino e sgomento per ciò che è, da cui poi viene la voglia di conoscere. Quanto profondamente umano era quel bambino e quanto bambino è in fondo l’antropologo, che trasforma la meraviglia per gli esseri umani in metodo scientifico di conoscenza dell’umano.