ArchivioAntropologicoApolito n°23 - 14.6.2023

C’è Eros nella parola, capì un giorno il protagonista di “La morte a Venezia” (Thomas Mann). Preso dall’entusiasmo per la presenza del giovanetto Tadzio, avvertì l’impulso di scrivere, poiché “mai aveva sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben capito che Eros è nella parola”. Scritta, ma anche parlata. E cantata. Soprattutto cantata, se si ascoltano questi tre frammenti di canti “alla cilentana”, raccolti nel 1973 dall’allora studentessa Giovanna Sacco. C’è Eros nel canto popolare, c’è Eros in questi sparuti frammenti cantati da un’anziana contadina (purtroppo anonima) in un paese cilentano. Il testo dei canti conta poco. Che sia in parte in italiano, in parte ritradotto nella parlata locale, conta poco. È il canto, è l’esperienza del canto che dà il tono emotivo a quelle parole, ed è in essa che si intravede la carica erotica. Chi erano gli autori di questi o di quelli o ancora di quegli altri versi popolari che si cantano nelle tradizioni canore? Domanda a cui hanno provato a rispondere generazioni di studiosi, ma essa rimane. L’oralità lascia tracce solo nella voce umana e nella memoria di essa. Non nei codici degli autori. Le parole dei canti a volte sono di provenienza colta, in questi canti per esempio, una spia è l’”alma”. E inoltre, contadini analfabeti non potevano certo cantare “oggi bell’idol mio mentre scriveva”, come se stessero davvero descrivendo un momento della loro vita. Eppure questi versi, queste parole, sono rimasti nella tradizione per generazioni. Poiché il loro fascino non era nel dettato delle parole, ma nel senso. E questo era soprattutto erotico. Io penso che neppure in quella scena familiare, in cui una nonna veniva sollecitata a un esercizio della memoria – faticosa, come si vede nel terzo frammento – e in cui un bimbo in fasce faceva sentire la sua presenza al mondo, la carica erotica era scomparsa. Non riuscirei a spiegarmi in altro modo le risatine sottostanti al canto, se non come reazione emotiva all’imbarazzo di un canto d’amore sulle labbra di una vecchia ottuagenaria presa in un momento familiare, in cui per definizione ogni carica erotica si è trasferita dalla generazione anziana a quella dei figli e dei nipoti. Il prodigio del canto popolare è che questa carica erotica non scompare mai, neppure quando sembrerebbe non avere più ruolo. Poiché la memoria del canto d’amore – come nel lamento funebre in cui la ripetizione del lamento riattualizza il cordoglio – rinnova l’amore remoto e lo rende nuovamente presente. Le foto qui pubblicate non hanno riferimenti né alla cantatrice né ai canti. Però sono contemporanee alla registrazione. Sono concentrate sul vecchio abitato di Roscigno, la “Roscigno vecchia”, che già agli inizi del Novecento fu sgomberata con ordinanze del Genio Civile per i continui e progressivi smottamenti che risalivano al Cinquecento. Ma molti abitanti abbandonarono le loro caso solo nei decenni successivi. Quando le foto furono scattate c’erano ancora due o tre abitanti (uno si intravede in una finestra) e per le strade passavano capre e pastorelli. Oggi Roscigno vecchia viene visitata per la possibilità che offre di vedere un antico abitato contadino rimasto praticamente intatto da oltre un secolo. In un certo senso anche queste foto e questi canti aprono una finestra su un passato non così lontano. E soprattutto, forse, vivo di nascosto come passato non elaborato nel presente.
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