ArchivioAntropologicoApolito n°24 - 26.6.2023

Si potrebbe scrivere un lungo saggio scientifico su questi tre minuti di canto accompagnato dalla tromba degli zingari, e al termine ancora ci sarebbe da dire. In questa breve scheda sunteggerò poche cose: La voce. Innanzitutto la voce. Io penso che per goderla oggi pienamente bisogna essere colti. Lo penso davvero. Al tempo in cui fu cantata era più facile apprezzarla, oggi bisogna essere colti. Non dico musicalmente, o solo musicalmente, ma in senso più ampio: per apprezzare questo particolare squarcio sonoro del silenzio cosmico, bisogna riflettere. La voce, questa voce, mangia il respiro, lo beve, lo filtra attraverso l’apparato respiratorio e anche quello digerente, e poi lo libera nell’aria. Il risultato è profondamente sensuale, ma anche spirituale. Ascoltando questa voce, pur se non canta un canto religioso, capisco meglio perché gli esseri umani cantino per la divinità: che è il modo più pieno, integrale, totale di avvicinarsi all’immaginario metastorico dell’oltre. Le parole. Trascriverle è quasi un divertimento infantile. È quasi il gioco di un bambino che finge di essere, che so, Superman o roba simile, sapendo che non lo è, eppure godendo della finzione. Perché queste parole, le lettere di queste parole, e soprattutto le vocali, scivolano e scappano da tutte le parti. Tu hai afferrato la “a” o la “e” o la “u” e mentre la senti nella sua gamma separata dalle altre, ecco che il cantatore la trasforma, facendola scivolare nella gamma di un’altra, ruotando nell’antro della bocca l’intero arco sonoro che la circonda. E allora ti diverti, poiché capisci che stai giocando ad afferrare l’aria (proprio come il diavolo di quel racconto popolare che stupidamente voleva afferrare la scorreggia dietro il deretano di un uomo che gli aveva venduto l’anima, e che fu salvato dalla moglie che promise al diavolo anche la sua anima, se avesse afferrato la scorreggia, altrimenti avrebbe dovuto riconsegnarle l’anima del marito). Gli altri. Potrei dire “la comunità”, ma è preferibile che dica “gli altri”, poiché essi diventano “comunità” nel canto, prima sono soltanto “gli altri”. Intervengono a coro solo negli ultimi due giri sonori, prima ascoltano e tacciono. Entrano quando sono pronti ad entrare nel flusso sonoro della guida canora, non prima. Entrano solo quando si sono totalmente immersi nella comunità di canto. Perché il canto, la musica popolare in genere, questo fa, prende persone diverse, spesso divise, differenti, e le fonde in comunità. Poi dopo potranno pure tornare a essere diversi e divisi, ma per qualche frammento del tempo della loro vita sono stati comunità felice che canta insieme (ancora una volta, qui capisco la natura del canto religioso). Il tempo. In tre minuti si “dicono” cose che potrebbero essere dette in tre secondi o poco più. E questo tempo lungo non è vano. È una traccia di conquista umana del tempo. Quando il cantatore intona il canto tutti sanno dove va a parare, tutti conoscono già il testo, eppure tutti insieme si concedono un tempo lungo di ascolto e magari di intervento a coro. Poiché tutti apprezzano il tempo lungo di sosta dal resto, per lasciar passare la comunità del canto. Il senso. Il testo dei canti popolari viaggia di genere in genere e di occasione in occasione. Sarebbe un errore prendere la lettera del testo e investirla di un solo e unico senso, come potremmo fare per un bacio Perugina. I suoni delle parole in un canto sono più importanti del significato, non bisogna mai dimenticarlo. E il senso stesso è intreccio del significato, della performance e del suo contesto. Purtuttavia quel finale in cui si canta dell’innamorata che aspetta dietro la finestrella con gli occhi ciechi di sonno e dell’innamorato che vuole dirle di non perdere il sonno per lui, è davvero potente. Siamo nel 1974 a San Marzano sul Sarno, a casa di Peppe Langella, contadino del paese. Ci sono vari amici, c’è la mamma, che avrebbe cantato dopo, ci sono bambini che ascoltano incantati. In quella casa sono arrivati alcuni giovani del Teatrogruppo, vengono da Salerno, girano per paesi del salernitano, incontrano persone, registrano canti ma soprattutto fanno amicizia (di questa esperienza ne ho già parlato in precedenti post). Ora canta zi’ Tore, prima ha cantato Peppe, dopo canterà sua madre, infine una ragazza di cui ho perso il nome. Oggi ho appreso – me lo ha detto Biagino De Pisco, che ringrazio – che zi’ Tore non era originario di San Marzano, aveva sposato una donna di là e si era accasato, era “forestiero”. All’orecchio coltissimo di Biagino il suo canto mostra la sua diversità. Ma io non ho un tale orecchio colto e credo si contino sulle dita di una mano quelli che ce l’hanno, per poter avvertire questa diversità. Anche per questo, tale canto è davvero eccezionale: mostra una “contaminazione”, un piccolo esempio di un fenomeno di cui è piena la storia degli scambi culturali: c’è sempre qualcuno che da dentro uno stile culturale si muove verso fuori – o, come in questo caso al contrario, da fuori a dentro - e per questo ogni stile culturale è sempre un organismo che si muove, si trasforma, si riadatta al tempo storico e agli incontri che gli umani fanno. Ho già ringraziato Biagino De Prisco, per avermi aiutato nella redazione di questo documento. Aggiungo nel ringraziamento per lo stesso motivo anche Ugo Maiorano
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