
Antropologo a domicilio n°54 (28.9.2019)
Due persone incontrate ieri sera mi hanno stimolato a riflettere (vorrei sempre incontrare persone che mi spingano a riflettere). Una bambina del posto e un ragazzo proveniente dal Senegal. Ho tenuto il mio monologo “Tre compari musicanti” a Sala Consilina, in una specie di giardino incantato di una vecchia chiesa settecentesca dedicata alla Madonna del Monte.
C’era una bambina nel pubblico. Alla fine, si è avvicinata e mi ha chiesto “ma finisce il mondo?”. Non c’entrava con il monologo la sua domanda. Ma poiché io ero un “professore”, voleva che io gli risolvessi il dubbio che le era sorto la mattina, a scuola, mentre in classe e con la maestra ragionavano di crisi ecologica, nella giornata che nel mondo milioni di giovani cittadini del pianeta hanno dedicato alla domanda di cambiamento radicale delle politiche ambientali. Sulla scorta del movimento di idee e di persone nato intorno alla figura di Greta.
Ammettiamo tutto il male possibile su Greta, sul perché e percome. Ammettiamolo (per eliminare subito un tipo di obiezione che non mi interessa). Rimane che questa ragazza è riuscita a far entrare nella testa di milioni di persone nel mondo — compresa quella bambina — che c’è un problema drammatico che ci riguarda tutti. E la cui soluzione non è più procrastinabile. Non ci sono riusciti migliaia di scienziati. C’è riuscita lei. E non per limiti scientifici di quelli, ma per com’è fatta la struttura delle comunicazioni globali. Che Greta è riuscita a penetrare e usare. Non voglio difendere Greta, non mi interessa. Mi limito a osservare il fenomeno. Far entrare nella testa di milioni di persone che c’è un allarme globale, significa tante cose. Tra cui una, antropologicamente interessante: scommettere positivamente sulla creatività riflessiva dell’homo sapiens (che è ciò che emerge da due secoli e passa di antropologia culturale). Cioè ammettere– in questo caso — che una gigantesca riflessione collettiva (che è solo avviata da questa giornata e altre come questa, non conclusa con lo “sciopero”) potrà modificare comportamenti collettivi e imporre politiche ambientali. È una scommessa. Io credo che vincere questa scommessa sia la speranza del pianeta intero.

La seconda persona è un ragazzo proveniente dal Senegal che ha ascoltato il monologo. Alla fine, gli ho chiesto cosa ne pensasse. Mi ha detto che finalmente aveva visto da vicino, nella vita concreta delle persone di cui raccontavo, la vicenda storica che lui aveva studiato a scuola, qui in Italia, i Borbone, il ’99 e così via. Non nego che mi ha fatto piacere la sua osservazione, che ho preso come un complimento.
Ma poi ho pensato. Questo ragazzo viene da un continente che ha subito storicamente la più violenta rapina degli ultimi secoli: quella di esseri umani ridotti in schiavitù per secoli. Tralascio gli altri tipi di rapina ancora presenti: di risorse, ambiente, economia, eccetera. Questa enorme violenza che i vincitori (cioè il mondo euroamericano) nascondono nelle note dei libri di storia o mimetizzano nelle formule accademiche, e si guardano bene da insegnare nelle scuole, continua ancora oggi: ho pensato. Il ragazzo che viene dal Senegal studia i Borbone, il Risorgimento, l’Italia. Noi gli chiediamo da una parte di ignorare la sua storia e dunque di nascondere come facciamo noi la storia della rapina, e dall’altra di concentrarsi sulla nostra storia nazionale. Questa è violenza.
Ma certe volte la violenza può essere utile o almeno tollerabile.
Si potrebbe tollerare questa violenza se fosse dentro un piano di pacificazione locale e globale. Cioè a dire: OK, le cose sono andate come sono andate. Ma lasciamo stare il passato. Ora cambiamo capitolo. Ora vogliamo stare in pace e non fare più violenza (la Germania post-guerra e gli ebrei, per esempio). È difficile, però non ci sono alternative alla pacificazione: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.
In cambio, una promessa però: la pacificazione metterà le vittime nelle stesse condizioni degli aguzzini (“ebrei, siete cittadini come gli altri!”, per rimanere nell’esempio tedesco). Sulle stesso piano. Ti faccio studiare la storia d’Italia perché diventerai italiano. Cioè ti prometto che ti tratterò esattamente come tratto i cittadini italiani. Sarai, anzi mentre studi sei italiano come tutti.
Però se non è questa la mia intenzione, se ti faccio studiare i Borbone (e sentirai pure un monologo di un professore che parla di loro) e poi dopo comunque ti dico: “tu non sei come noi, tu non sarai mai come noi”, allora la violenza, quella inaudita violenza storica, mai pienamente rivelata e ammessa, quella ripugnante violenza che i miei antenati fecero ai tuoi antenati prosegue sul tuo corpo di ragazzo che viene dal Senegal.