Antropologo a domicilio n°19 (22.5.2017)

“Voglio dirle in tutta sincerità che per me è stato molto strano che un professore ci abbia invitato a fare una festa all’università”. È un piccolo stralcio di una lettera che una studentessa dell’università di Roma 3 mi ha inviato dopo che avevo proposto, organizzato e assegnato come compito di studio una lezione-festa agli studenti. Il mio obiettivo era di far studiare etnograficamente i “ritmi di festa”: cioè vivendoli (e osservandoli) personalmente; facendo la festa e poi studiandola con la documentazione audio e video che alcuni tra gli stessi studenti avrebbero curato insieme a me.
Per molti anni ho organizzato all’università di Salerno “Campusinfesta”, una festa a conclusione dell’anno accademico con migliaia di partecipanti. In seguito ho continuato a Roma per qualche anno. Non ho avuto difficoltà a farlo a suo tempo, nè necessità di giustificarlo. Dopo appena un decennio la proposta di una festa dentro l’università è apparsa strana, quasi inspiegabile se non provocatoria (ma poi la festa si è fatta, varie le reazioni, ma: riflessioni condivise e studio compiuto).
Nella vita “pubblica” la festa è stata rinchiusa in “ghetti”: dello sport, della cerimonia religiosa, di alcune sempre più rare e quasi imbarazzate manifestazioni politiche. Tutto il resto della spinta a fare festa è vissuta nel privato. Quasi in clandestinità, come una cosa di cui vergognarsi. È un indizio che mi fa sospettare un cambiamento culturale profondo, “antropologico”, come si dice. E che va al di là della “crisi” globale nella quale siamo immersi da qualche anno. L’impulso a fare festa è una componente fondamentale della stessa evoluzione umana articolata in miriadi di esperienze culturali diverse. E ovviamente c’è anche oggi, non è scomparso. Ma dalle nostre parti lo andiamo chiudendo in “ghetti” e nella vita privata. Cioè ha perso gran parte della sua visibilità nella vita pubblica (in verità ci stava a fatica già da molto tempo, però ci stava).
Una volta indebolito l’impulso alla festa è stata poi ritirata la legittimazione alla gioia come sentimento pubblico collettivo. E anche la sua compagna, l’allegria contagiosa, non se la passa bene. È rintanata nei ghetti della comicità televisiva, negli scherzi dei social, nel privato più intimo possibile.
Di conseguenza, le nostre emozioni pubbliche si stanno riducendo paurosamente a quelle negative. Al contrario di quelle positive, tali emozioni hanno oggi una massiccia presenza pubblica, che solo qualche decennio fa sarebbe stata inimmaginabile, e prosperano, s’ingrassano, sembrano ormai quasi “normali”. Hanno un alleato insperato, che talvolta è un consapevole rimestatore: i media. Per ragioni di mera audience — cioè in ultima analisi commerciali — il loro implacabile ordine del giorno quotidiano orienta le emozioni collettive verso i toni di una rabbiosa ostilità di tutti contro tutti. In buona sostanza, toni francamente asociali o peggio dissociali. Le ultimissime generazioni, i bambini più degli altri, sono esposti a un ventaglio ridotto di possibilità emotive che più che stimolare la socialità, sembrano lavorare per la sua dissoluzione. Già. E con questo lavorano alla dissoluzione dello stesso “anthropos” (leggevo recentemente in una chat: “bisogna insegnare a odiarli, io l’ho già fatto con i miei nipoti di 6 e 8 anni”. Ora non importa chi era l’oggetto dell’odio: “bisogna insegnare a odiare” fa tornare alla mente tragiche stagioni del Novecento europeo).
E dunque, “che ci fa una festa all’università?” mi viene chiesto, come se all’università non ci fossero esseri umani nella loro completezza, ma cervelli sotto spirito. Cioè, che ci fa un’emozione vitale come la gioia collettiva nel luogo in cui la vita sembra essere scomparsa, come se fosse stata espulsa? “Siamo estranei” che seguono lezioni universitarie, ha commentato uno studente. Vivere nello stesso luogo tra gli stessi banchi per lo stesso scopo tra le stesse persone per più di cento ore nel corso di dodici settimane, senza che cadano i muri dell’estraneità, è “normale”. Per alcuni (giovani studenti, non vecchi bacucchi ) è “normale”. E invece è talmente “anormale”, che è necessario cominciare a riconoscere una nuova vera emergenza sociale: il crollo della socialità pubblica positiva. Come un terremoto. Sì, le lentezze pubbliche di ricostruzione dei territori colpiti da un terremoto sono una buona metafora per “pensare” — in questo caso non alla lentezza ma — all’assenza di forme di ricostruzione delle macerie sociali degli ultimi anni.
Lo stesso razzismo io penso, lo stesso razzismo che tracima in modo sempre più evidente nelle comunità locali del nostro paese, è solo una conseguenza visibile ed esplicita di un rischio più profondo e devastante che assedia quello che una volta passava come lo stile di vita comunitario del nostro paese, cioè la capacità di apertura, di entrare in “simpatia” con i vicini anche provvisoriamente incontrati (anzi, forse soprattutto). E sotto sotto fa capolino il rischio di lesione dello stesso ”organo” costitutivo la condizione degli animali sociali, gli esseri umani più di tutti: l’empatia (per favore, non venitemi a dire che la crisi è così potente da dissolvere ogni volontà di festa, di gioia, di allegria. Posso proporre un’antologia di esempi di gioia festiva nelle situazioni catastrofiche più estreme. Dai lager, ai gulag, alle guerre, ai terremoti, alle catastrofi di ogni tipo. Per favore). C’è oggi un tale esercizio quotidiano di lesione dell’empatia umana nel dibattito politico, nei social, nelle conversazioni da bar, che mi sorprende tutto sommato che i dati sul bullismo scolastico non siano più vertiginosamente su di quanto non siano.
La festa senza nessuno scopo che se stessa. La gioia come libera espressione del piacere di stare insieme. L’allegria come carattere sociale. Sono solo le prime vittime di quella che può trasformarsi in un’epidemia di varie patologie antropologiche.
Per questo — basterebbe solo “per questo” — chi può, chi ha strumenti, chi ha ruoli sociali non esiti a invitare alla festa, alla gioia gratuita, all’”abbondanza” di umanità senza nessun altro scopo che se stesse. Nelle case sì, nei gruppi intimi sì, ma poi soprattutto negli spazi pubblici, nell’incontro tra “estranei”. La festa pubblica negli spazi pubblici è diventata una questione politica.
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