Antropologo a domicilio n°63 (15/9/2020)

Qualche giorno fa, a Roccapiemonte, in provincia di Salerno, un neonato è stato lanciato dalla finestra del secondo piano della casa dove era nato; dalla madre, secondo l’imputazione del giudice, o forse dal padre, prima incolpato poi discolpato, e che tra l’altro mette in dubbio la sua paternità. Lanciato dalla finestra di casa e ucciso dall’impatto al suolo. Nessuna copertura mediatica, nessuna indignazione nazionale.
Non voglio stabilire una graduazione dell’orrore per inserire in una impossibile classifica questo e altri delitti. Per esempio quello di cui è rimasto vittima Willy, e la cui eco, accompagnata da indignazione e sdegno, è stata enorme. Non mi tiro fuori, sono stato anche io toccato profondamente dall’omicidio di Colleferro e travolto da emozioni vivissime. Ma proprio per questo non posso non chiedermi perché. Sono stato parte di un grande esperimento sociale ed è mio compito rifletterci.
L’indignazione e lo sdegno collettivi non sono il risultato della sommatoria di spontanee reazioni individuali, una accanto all’altra. Non siamo animali istintuali che reagiscono allo stesso modo a medesimi impulsi. Ognuno di noi ha le sue soglie emotive e i suoi sistemi di reazione, i suoi valori e i suoi riferimenti. Ma in più siamo animali sociali, cioè viviamo immersi in uno scambio emozionale continuo, ci influenziamo reciprocamente, in alcuni casi ci contagiamo. È ciò che è avvenuto a proposito dell’omicidio di Willy: sì, certo, reazioni individuali dettate dall’evento, ma soprattutto dalle reazioni degli altri a noi più o meno vicini.
Una volta esistevano agenzie sociali che mediavano e orientavano le influenze emozionali reciproche: famiglie, partiti, sindacati, parrocchie. Ora sono i media e i social a fare questo lavoro. Che però diversamente dalle antiche agenzie sociali non hanno finalità affettivo-politico-social-religiose. In ultima analisi, le hanno di profitto. In un certo senso noi siamo ostaggio di grandi concentrazioni di potere economico-politico. Che controllano e alimentano persino le nostre emozioni, quanto più esse ci appaiono del tutto personali, profonde, di “pelle”. A noi sembra che i social siano semplici contenitori di autentiche emozioni individuali; in realtà subdolamente nascondono i propri meccanismi di influenzamento la cui logica è il controllo degli utenti. Basti solo pensare all’azione di squilibrio democratico che i social hanno avuto in recenti elezioni politiche, e su cui gli osservatori di tutto il mondo hanno lanciato l’allarme. Altro che spontanee reazioni individuali: nei social sono all’opera campagne organizzate che utilizzano algoritmi in grado di sedurre emotivamente milioni di persone secondo logiche e indicazioni ben studiate a tavolino.
In conclusione, la nostra indignazione, il nostro sdegno verso gli assassini, e la nostra pietà verso la vittima, pur essendo nobili emozioni, pur apparentemente sgorgando dalla nostra intimità, sono dentro strategie di influenzamento sociale scaturite da logiche di potere del tutto estranee a quei sentimenti e quelle emozioni.
Voglio per caso ridimensionare l’onestà delle emozioni collettive suscitate dal delitto di Willy? Voglio cancellarmi dall’elenco dei numerosissimi che si sono indignati e hanno sentito una smisurata pietà per la vittima? Voglio manifestare indifferenza? Niente di tutto questo. Mi sono commosso come tanti per il destino infelice di Willy, e indignato per i violenti che l’hanno ucciso. Ma sono al tempo stesso consapevole che la realtà è più complessa delle immagini semplici e rassicuranti che certe volte ci si dà per reggere al peso della vita contemporanea. Ciò che qui voglio sottolineare è che un sentimento avvertito come autentico è in realtà un intreccio tra contagi collettivi, automatismi psichici individuali e regie algoritmiche di centrali di influenzamento e controllo politico-economico.
Le prove indirette sono l’indifferenza e il silenzio che circondano altre scene delittuose. Se pietà per la vittima e sdegno per i carnefici fossero sempre e dovunque spontanee reazioni individuali che si assommano insieme per condivisione di sentimento, allora — per fare un esempio — ciò che sta avvenendo a Lesbo dovrebbe suscitare enormi onde emotive: un delitto quotidiano moltiplicato per alcune migliaia. Violenze, stupri, omicidi, suicidi, cancellazione di ogni dignità umana, le cui vittime sono i profughi a cominciare dai bambini — una quantità enorme, che saranno probabilmente adulti devastati per sempre — e poi donne, uomini senza colpa per il loro destino.
Ancora una volta nessun confronto di orrore per una classifica, ma una riflessione sullo strabismo delle emozioni collettive. C’è nel delitto di Willy qualcosa che non c’è nell’abominio di Lesbo e che favorisce le nostre emozioni collettive ed è su questo che agiscono a man bassa i media e i social: nella vicenda di Willy, noi possiamo esorcizzare il Male concentrandolo nelle persone dei suoi assassini (molto più difficile per Lesbo: le guerre? la Grecia? l’Europa? gli stessi profughi?).
La produzione del mostro — il capro espiatorio — è un meccanismo millenario. Innocente o colpevole che sia, qualcuno deve essere messo alla gogna affinché la comunità si liberi delle proprie colpe scaricandole su chi è imputato di colpa. Al di là degli aspetti giuridici dell’omicidio di Willy, sui quali siamo appena agli inizi, tutto questo circoscrivere i mostri assassini, questo definirli nei loro aspetti soprattutto fisici, di palestrati, di violenti abituali, di consumatori abituali di droga, questo caricarli di bestialità (come se le “bestie” uccidessero per “futili motivi”) sembra proprio un meccanismo di scarico delle corresponsabilità.
Corresponsabilità di tutti? E perché mai? cos’abbiamo a che fare noi persone rispettose degli altri e dei valori con tali ceffi assassini? si chiederà qualcuno.
Ed è una domanda giusta. Purché non sia retorica, cioè non abbia già contenuta in sé la risposta: “ niente”.
Qualche spunto, in vista di una risposta non retorica a questa domanda.
1) Come fanno le persone che nei social hanno coperto di odio i giovani accusati dell’orrendo omicidio di Willy, a non capire di essere invischiati nella stessa rete di violenza che poi è fisicamente esplosa contro Willy? Certo, un conto è augurare tormenti e morte via social un altro è procurarla direttamente. Ma la maglia della violenza diretta si genera per sostegno di un formicolante tessuto di nodi violenti nella vita quotidiana, nelle relazioni sociali, infine nell’odio social.
2) Come non capire che la pigra abitudine diffusa a vivere fuori da ogni orizzonte di empatia, gentilezza, attenzione agli altri, immersi nel torpido tran tran quotidiano di abitudine e indifferenza per le piccole violenze a cui si assiste nei propri ambienti — e che certe volte si esercitano — e per le grandi violenze del tipo di quelle perpetrate a Lesbo (e in altri centri di concentramento della violenza e del dolore) è il brodo di coltura di ogni violenza quotidiana, che poi di tanto in tanto esplode in delitti efferati?
3) Come si fa a non pretendere che la politica — i politici che votiamo — metta al primo punto della sua agenda il rispetto dei diritti umani, sempre e dovunque (anche degli assassini di Willy, poiché la giustizia non è vendetta), e che se per questo retrocede altri punti dell’agenda, non le verrà imputato come colpa nell’urna?
Altrimenti, asciugate le lacrime per Willy, mettiamoci in attesa del nuovo delitto, che ci permetterà di scaricare ritualmente le nostre corresponsabilità per l’imbarbarimento della vita sociale.
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