Antropologo a domicilio n°95 (4.3.2024)

Dunque finanziare una rassegna di zampogne è uno spreco di denaro pubblico. Non solo: è un provvedimento su cui richiamare sorrisi di commiserazione o spregio nel pubblico televisivo del principale canale della Rai: da parte della personalità politica più alta del governo nazionale.
La zampogna, la sua musica, uno spreco. Esattamente come cento, duecento anni fa, nell’opinione dei viaggiatori che, venendo da fuori, attraversavano le campagne del Sud, e dei “galantuomini”, che vivevano dentro i territori in cui la zampogna si suonava, e che dicevano della zampogna “musica rozza”, suonata da “persone rozze”. Cento, duecento anni era ciò che dicevano le persone “che contavano”. E oggi ancora oggi continua la superficialità delle persone “che contano” verso questo strumento, questa musica, queste forme di arte “popolare”.
Superficialità ancora più grave, questa di oggi, perché la “battuta” è stata fatta da un esponente politico che si richiama a valori “patriottici” e “identitari”.
Io non amo la parola identità, perché è tendenziosa. Dice cose che non esistono. O meglio, le fa immaginare. Per esempio che esistano culture chiuse in se stesse. Identiche a se stesse. Una sciocchezza. Ogni cultura è un miscuglio meticcio. Ma se pure dovessi dare alla parola “identità” un valore, ebbene la zampogna sarebbe proprio un nostro strumento identitario. Della nostra storia. Insieme alla ciaramella-piva, alla chitarra battente, alle launeddas sarde, al tamburo-tamburello-tammmorra, al marranzano-tromba degli zingari, agli altri strumenti popolari, che sono gli strumenti veri della nostra storia. Che è fatta innanzitutto di contadini e pastori e artigiani e pescatori. Per secoli. Non di “galantuomini” parassiti di cui oggi sono eredi coloro che pensano che questi strumenti siano “rozzi” e che non meritino risorse, perché sarebbe uno spreco.
Ma poi:
a parte il rozzo – questo sì, rozzo - discorso secondo il quale le risorse per la cultura sarebbero alternative a quelle, che so, della sanità o delle infrastrutture;
a parte che suonare la zampogna richiede alta competenza e notevole abilità: dall’accordatura, tutte le volte mutevole, al gioco delle ance;
a parte che la zampogna viene oggi insegnata in Conservatori musicali pubblici;
a parte che il suono della zampogna è presente oltre che in partiture di grandi musicisti del passato, anche in eventi musicali contemporanei diretti da direttori d’orchestra di statura internazionale;
a parte tutto questo e altro ancora,

questi strumenti (le zampogne e gli altri) hanno accompagnato per secoli la resilienza di quei ceti sociali sfruttati fino al midollo, e che pure hanno resistito, creando capolavori artistici (canti, fiabe, proverbi, giochi linguistici, balli, feste), comparabili a quelli dei grandi artisti nazionali (Dante, Michelangelo, Verdi…), e che peraltro oggi vengono esaltati come patrimoni immateriali su cui fare cassa turistica.
Cosa ne sarebbe di un politico in Scozia, se ironizzasse sulle cornamuse (che hanno accompagnato i funerali della regina Elisabetta II) o l’accordéon in Francia o il banjo in Irlanda o nel Sud degli Stati Uniti o altri esempi ancora?
Per fortuna esistono, con buona pace dei “galantuomini”, esistono e resistono zampognari, suonatori di launeddas e di chitarra battente, tamburellisti e tammorrari e cantatori in questo nostro smemorato paese.
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